Problema "giusto", soluzione sbagliata


Prima di tutto, la notizia: in commissione Bilancio e poi in commissione Finanze del Senato è passato un emendamento al Decreto Crescita che avrà ripercussioni sul mondo del calcio. Il riferimento è al tanto chiacchierato decreto crescita che, pensato per “riportare i migliori cervelli in Italia”, in realtà era diventato (soprattutto) un bonus per le società che, in quel modo, hanno a lungo usufruito di un'agevolazione fiscale. In pratica infatti, riportando in Italia un lavoratore residente all'estero da almeno due anni, un datore di lavoro pagava un imponibile del 30% sullo stipendio lordo che il governo, per gli sportivi, ha poi alzato al 50%. Facciamo un esempio su un calciatore professionista che da anni militava in un club estero e che si trasferiva in Italia. Per garantirgli uno stipendio netto di 2 milioni annui, il club italiano acquirente applicava le ritenute sull’imponibile ridotto del 50% e così l’ingaggio, a parità di importo netto, costeraà 2,54 milioni (con un’Irpef di 539.270 euro) anzichè 3,5 milioni. In sostanza, se una società italiana sborsava quasi il doppio rispetto a quanto entrava nelle tasche del calciatore, considerata l’aliquota massima Irpef del 43%, grazie a quel codice del decreto crescita pagava meno di un terzo del netto. Ebbene. D'ora in poi, si (ri)cambia. Con l'emendamento appena approvato infatti viene fissato un tetto agli sgravi fiscali per i giocatori stranieri. potrà godere del vantaggio fiscale solo chi ha contratti da un milione di euro in su (al lordo Irpef) e abbia compiuto almeno 20 anni. Un modo, almeno nelle intenzioni, per porre un freno all'acquisto di stranieri favorendo (in teoria) i ragazzi italiani.

 

La domanda è: è la strada giusta? Probabilmente no. Prima di tutto perché in questo modo (tanto per cambiare) si crea un ostacolo ai club con meno possibilità economica favorendo, al contrario, le società più ricche. La prima questione insomma, è di natura “competitiva”. In un calcio dove il gap tra grandi e piccole è sempre più grande, questo emendamento rischia di allargare ulteriormente una distanza ormai quasi impossibile da colmare creando un danno a chi, teoricamente, compete per provare a vincere. E poi ancora. Perché agire sempre inserendo limitazioni e non, invece, immaginando degli incentivi per chi promuove (e utilizza) ragazzi cresciuti nel proprio vivaio e, possibilmente, italiani? Si potrebbe immaginare un contributo economico per ogni presenza in Prima Squadra o, al limite, si potrebbe introdurre l'obbligo di far giocare (sempre) almeno tre calciatori italiani. Possibilmente, giovani. Soltanto così, si può pensare di farli crescere. Anche perché il salto di qualità si fa se i ragazzi si abituano a giocare nelle grandi che, ovviamente, sono anche le più ricche. Proprio quelle, invece, che in base al nuovo decreto potranno continuare a importare dall'estero “valanghe” di calciatori.

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